Pietro Francisci nasce a Roma il 9 Settembre 1906 da Giulio, apprezzato profumiere della capitale, e da Elisabetta Nanni. Ha tre fratelli; Giuseppe, il più grande che tutti chiamano Peppino, poi ci sono Mario, detto Nino, Rolando e una sorella, Bibba.
La famiglia abita un comodo appartamento in uno degli antichi palazzi al numero 44 di via dei Banchi Nuovi nel cuore del centro storico a due passi da San Pietro appena oltre Tevere. La madre, donna particolarmente religiosa, manda tutti i figli a scuola dai preti. E’ proprio a scuola che Pietro fa subito amicizia con Ennio.
Oltre a stare nella stessa classe, saranno scelti insieme per cantare nel coro della Cappella Sistina. La loro sarà una bella amicizia che durerà molto a lungo, anche quando Ennio sarà diventato Monsignor Francia, illustre storico e critico dell’arte che, all’inizio degli anni ‘40, darà vita alla Messa degli Artisti ancora oggi celebrata nella Basilica di Santa Maria in Montesanto a Piazza del Popolo a Roma.
Francisci compie il servizio militare nel corpo dei Bersaglieri come sottufficiale, fortemente attratto dal giovanissimo mondo del cinema, abbandona, alla vigilia della laurea, gli studi in Giurisprudenza e si cimenta nella regia di documentari e corti. Condivide gli inizi con un altro debuttante, destinato anche lui a lasciare un’impronta importante nella Storia del Cinema, Jack Cardiff. Operatore alla macchina, direttore della fotografia fu il primo a girare un film inglese a colori. Con lui Francisci gira sul Vesuvio “La montagna di fuoco”, il primo documentario a colori prodotto in Italia negli anni ’30.
Da allora e fino alla metà degli anni ’40 Francisci realizza molte decine di documentari che gli valgono premi e riconoscimenti anche all’estero. Nel 1943 Sandro Pallavicini lo nomina Direttore Artistico della INCOM (Industrie Corti Metraggi S.A.I.).
Fino a quel momento i suoi documentari erano stati prodotti dal LUCE (L’Unione Cinematografia Educativa). Già nel 1934 Francisci si cimenta con il lungometraggio e fa la regia di “La mia vita sei tu”, una commedia della durata di circa novanta minuti, con Maria Denis, Gino Sabbatini e Gianfranco Giachetti. E’ questa, comunque, solo una parentesi nella sua attività di documentarista che arriva fino al primo dopoguerra. E’ in questa fase che, cercando volti nuovi, individua tra le interpreti di fotoromanzi Diana Lori. La lancia nel mondo dei 35 millimetri affidandole la parte di protagonista di tre corti a carattere musicale creando quello che sarebbe diventato il mito Gina Lollobrigida. A questo punto si concentra sul cinema a soggetto con opere di diversa ispirazione: dal patetico “Io t’ho incontrata a Napoli” (1946) a “Natale al campo 119” (1947), di impronta vagamente neorealista. Questo film resta come punto di riferimento quale primo passo per la ripresa se non addirittura per il nuovo indirizzo che avrebbe preso il nostro cinema. Il cast ne è valida testimonianza: Aldo Fabrizi, Vittorio De Sica, Peppino De Filippo, Adolfo Celi, Roberto Rabagliati, Massimo Girotti, Ave Ninchi, Carlo Campanini, Maria Mercader, Giacomo Rondinella, Olga Villi e Carlo Mazzarella.
Il misticheggiante “Antonio di Padova” (1949), con un superbo Aldo Fabrizi, è l’ultimo film di Francisci prima della sua svolta sul versante del cinema epico. E’ qui che trova un registro genuinamente personale, a partire da film come “Il ribelle di Amalfi” (1950, noto anche come Il leone di Amalfi), “Le meravigliose avventure di Guerrin Meschino” (1952), “La regina di Saba” (1952), “Attila” (1954), fino alla definitiva affermazione con “Le fatiche di Ercole”. Il film, che ottenne in Italia l’incasso record di quasi 1 miliardo di lire e negli Stati Uniti di ben 18 milioni di dollari, avviò una straordinaria stagione del cinema commerciale nazionale consolidando un filone, il cosiddetto peplum, che avrebbe trovato riconoscimento critico oltralpe grazie ai cinéphiles dei “Cahiers du cinéma”.
Coniugando disinvoltura produttiva e libertà d’invenzione, bassi costi di produzione e creatività artigianale, e affidandosi a una narrazione sostanzialmente mitico-fantastica con una pallidissima verosimiglianza storica, Francisci, dotato di padronanza tecnica e sicuro nella messinscena, perfezionò una serie di stereotipi ‒ l’eroe muscoloso (sopra tutti l’attore statunitense e culturista Steve Reeves) e la regina seducente, la schiava discinta e l’imperatore crudele, il consigliere infingardo e i virili centurioni, tutti impegnati in avventure iperboliche e amori tempestosi ‒ che avrebbe assicurato la fortuna del genere colpendo efficacemente l’immaginazione del pubblico popolare.
Agli ulteriori successi conseguiti con “Ercole e la Regina di Lidia” (1959) ed “Ercole sfida Sansone” (1963), si aggiunsero via via “L’assedio di Siracusa” (1960), melodrammatica e spregiudicata rielaborazione di un episodio storico, “Saffo, Venere di Lesbo” (1960), l’ibrido mitologico-fantascientifico “2+5: missione Hydra” (1966) e “Simbad e il califfo di Bagdad” (1973).
Il misticheggiante “Antonio di Padova” (1949), con un superbo Aldo Fabrizi, è l’ultimo film di Francisci prima della sua svolta sul versante del cinema epico. E’ qui che trova un registro genuinamente personale, a partire da film come “Il ribelle di Amalfi” (1950, noto anche come Il leone di Amalfi), “Le meravigliose avventure di Guerrin Meschino” (1952), “La regina di Saba” (1952), “Attila” (1954), fino alla definitiva affermazione con “Le fatiche di Ercole”. Il film, che ottenne in Italia l’incasso record di quasi 1 miliardo di lire e negli Stati Uniti di ben 18 milioni di dollari, avviò una straordinaria stagione del cinema commerciale nazionale consolidando un filone, il cosiddetto peplum, che avrebbe trovato riconoscimento critico oltralpe grazie ai cinéphiles dei “Cahiers du cinéma”.
Coniugando disinvoltura produttiva e libertà d’invenzione, bassi costi di produzione e creatività artigianale, e affidandosi a una narrazione sostanzialmente mitico-fantastica con una pallidissima verosimiglianza storica, Francisci, dotato di padronanza tecnica e sicuro nella messinscena, perfezionò una serie di stereotipi ‒ l’eroe muscoloso (sopra tutti l’attore statunitense e culturista Steve Reeves) e la regina seducente, la schiava discinta e l’imperatore crudele, il consigliere infingardo e i virili centurioni, tutti impegnati in avventure iperboliche e amori tempestosi ‒ che avrebbe assicurato la fortuna del genere colpendo efficacemente l’immaginazione del pubblico popolare.
Agli ulteriori successi conseguiti con “Ercole e la Regina di Lidia” (1959) ed “Ercole sfida Sansone” (1963), si aggiunsero via via “L’assedio di Siracusa” (1960), melodrammatica e spregiudicata rielaborazione di un episodio storico, “Saffo, Venere di Lesbo” (1960), l’ibrido mitologico-fantascientifico “2+5: missione Hydra” (1966) e “Simbad e il califfo di Bagdad” (1973).
Pietro Francisci è sempre stato autore, sceneggiatore e montatore dei suoi film. La scrittura di ognuno di essi gli occupava gran parte del tempo. I suoi soggetti, alimentati dalla fantasia indispensabile e generosa che deve nutrire la narrazione di chi scrive e racconta “fiabe per adulti” (così lui stesso definiva i suoi film) prendevano sempre ispirazione dai grandi classici. Lo studio della Tragedia e della Mitologia greca ha lasciato il segno in tutti i suoi film del genere Peplum. Per “Le Fatiche di Ercole”, poi, studio e ricerca non si limitarono alla stesura del soggetto. La figura del protagonista avrebbe dovuto essere il polo di attrazione di tutto il racconto. Quando era ormai convinto che il suo Ercole avrebbe dovuto essere completamente diverso dall’archetipo in quel momento vigente del “forzuto”, quando non aveva più dubbi che il suo Ercole avrebbe dovuto superare la fantasia fin ad allora alimentata da massicci giganti dello schermo o del ring, Francisci decise che era il momento di sconvolgere gli schemi, di superare i confini custoditi dai marmi littori e di puntare sulla potenza dell’immagine.
E questa avrebbe dovuto essere un’immagine sfacciata.
Il suo Ercole sarebbe stato un culturista e doveva essere il migliore, il più elegante e definito, il più bello. Oggi pensare che una scelta del genere all’epoca fosse più che azzardata potrebbe risultare incomprensibile. Per valutare la portata della decisione di Francisci dobbiamo tenere assolutamente presente il comune sentire e il comune pensare di quegli anni. “Le Fatiche di Ercole” è del 1957 e, come è facile immaginare, il regista cominciò a pensare al suo film con un certo anticipo.
Rifacciamoci, quindi, alla prima metà degli anni ’50 e tentiamo di tratteggiare a gradi linee la fisionomia di quel periodo. Il nostro Paese era impegnato a risollevarsi: Un operaio guadagnava in media 40 mila lire al mese, la Fiat 600 costava 490 mila lire. “Lascia o Raddoppia” incollava davanti a monumentali televisori piazzati nei bar, milioni di persone. Per avere un’idea di come allora fossero ingessati i benpensanti basta ricordare l’emblematico caso dello “schiaffo di Scalfaro”. L’onorevole democristiano (sarebbe diventato Presidente Della Repubblica nel 1992) era a cena con due colleghi parlamentari in una trattoria a due passi da Montecitorio. Ad un certo punto si alza, attraversa la sala fermandosi ad un tavolo dove comincia a rampognare aspramente e ad alta voce (secondo le cronache dell’epoca volò anche uno schiaffo) una signora che a suo dire era vestita indecentemente perché aveva le spalle scoperte. Insomma questa l’aria che tirava, i cambiamenti si succedevano con grande rapidità e non senza attriti. Le opportunità erano molte, ma altrettanti erano i rischi di sbagliare e fallire. La scelta di Francisci per immagini rivoluzionarie si annunciava quanto meno ardita. Non solo. La stragrande maggioranza della gente comune ignorava cosa fosse il culturismo e i rari servizi dei Cine Giornali presentavano i praticanti di questa singolare disciplina sportiva d’oltre oceano come persone stravaganti sulle quali piovevano ironiche e pesanti allusioni di scarsa virilità nascosta dal volume dei bicipiti. Possiamo tranquillamente aggiungere che tra le tante innovazioni “Le Fatiche di Ercole” ha anche segnato il giro di boa nella mentalità del maschio riguardo alla sua immagine. Per tutti e non solo quindi per pochi avveduti, si faceva strada un atteggiamento di attenzione e cura per la propria persona, per l’igiene, per l’ aspetto fisico, per l’ immagine. “Le Fatiche di Ercole” nacque come una sfida e grande scommessa. La forza dell’eroe greco, quella mitica sostenuta e aggiunta a quella degli incassi al botteghino rese vincente quella scommessa. Ribaltò tutto e diede vita ad una nuova, generosa e florida stagione per il Cinema Italiano.
Pietro Francisci è sempre stato autore, sceneggiatore e montatore dei suoi film. La scrittura di ognuno di essi gli occupava gran parte del tempo. I suoi soggetti, alimentati dalla fantasia indispensabile e generosa che deve nutrire la narrazione di chi scrive e racconta “fiabe per adulti” (così lui stesso definiva i suoi film) prendevano sempre ispirazione dai grandi classici. Lo studio della Tragedia e della Mitologia greca ha lasciato il segno in tutti i suoi film del genere Peplum. Per “Le Fatiche di Ercole”, poi, studio e ricerca non si limitarono alla stesura del soggetto. La figura del protagonista avrebbe dovuto essere il polo di attrazione di tutto il racconto. Quando era ormai convinto che il suo Ercole avrebbe dovuto essere completamente diverso dall’archetipo in quel momento vigente del “forzuto”, quando non aveva più dubbi che il suo Ercole avrebbe dovuto superare la fantasia fin ad allora alimentata da massicci giganti dello schermo o del ring, Francisci decise che era il momento di sconvolgere gli schemi, di superare i confini custoditi dai marmi littori e di puntare sulla potenza dell’immagine.
E questa avrebbe dovuto essere un’immagine sfacciata.
Il suo Ercole sarebbe stato un culturista e doveva essere il migliore, il più elegante e definito, il più bello. Oggi pensare che una scelta del genere all’epoca fosse più che azzardata potrebbe risultare incomprensibile. Per valutare la portata della decisione di Francisci dobbiamo tenere assolutamente presente il comune sentire e il comune pensare di quegli anni. “Le Fatiche di Ercole” è del 1957 e, come è facile immaginare, il regista cominciò a pensare al suo film con un certo anticipo.
Rifacciamoci, quindi, alla prima metà degli anni ’50 e tentiamo di tratteggiare a gradi linee la fisionomia di quel periodo. Il nostro Paese era impegnato a risollevarsi: Un operaio guadagnava in media 40 mila lire al mese, la Fiat 600 costava 490 mila lire. “Lascia o Raddoppia” incollava davanti a monumentali televisori piazzati nei bar, milioni di persone. Per avere un’idea di come allora fossero ingessati i benpensanti basta ricordare l’emblematico caso dello “schiaffo di Scalfaro”. L’onorevole democristiano (sarebbe diventato Presidente Della Repubblica nel 1992) era a cena con due colleghi parlamentari in una trattoria a due passi da Montecitorio. Ad un certo punto si alza, attraversa la sala fermandosi ad un tavolo dove comincia a rampognare aspramente e ad alta voce (secondo le cronache dell’epoca volò anche uno schiaffo) una signora che a suo dire era vestita indecentemente perché aveva le spalle scoperte. Insomma questa l’aria che tirava, i cambiamenti si succedevano con grande rapidità e non senza attriti. Le opportunità erano molte, ma altrettanti erano i rischi di sbagliare e fallire. La scelta di Francisci per immagini rivoluzionarie si annunciava quanto meno ardita. Non solo. La stragrande maggioranza della gente comune ignorava cosa fosse il culturismo e i rari servizi dei Cine Giornali presentavano i praticanti di questa singolare disciplina sportiva d’oltre oceano come persone stravaganti sulle quali piovevano ironiche e pesanti allusioni di scarsa virilità nascosta dal volume dei bicipiti. Possiamo tranquillamente aggiungere che tra le tante innovazioni “Le Fatiche di Ercole” ha anche segnato il giro di boa nella mentalità del maschio riguardo alla sua immagine. Per tutti e non solo quindi per pochi avveduti, si faceva strada un atteggiamento di attenzione e cura per la propria persona, per l’igiene, per l’ aspetto fisico, per l’ immagine. “Le Fatiche di Ercole” nacque come una sfida e grande scommessa. La forza dell’eroe greco, quella mitica sostenuta e aggiunta a quella degli incassi al botteghino rese vincente quella scommessa. Ribaltò tutto e diede vita ad una nuova, generosa e florida stagione per il Cinema Italiano.
Riprendendo la biografia, nel 1941 Francisci sposa Adalgisa Nuccorini con la quale ha due figli, Paolo e Fulvia.
Come regalo di nozze i colleghi della INCOM fanno la ripresa della cerimonia che ritroviamo nell’Archivio LUCE. In luna di miele porta la sua “Ciccì” a Capri. L’isola per molti anni sarà luogo di vacanza per la famiglia e suo rifugio nei fine settimana liberi dalla lavorazione. Per raggiungerla all’inizio dell’estate, tutte le volte il rito si ripeteva: da Roma treno rapido fino a Napoli-Mergellina.
Da qui in carrozzella all’Hotel Vesuvio dove le stanze erano prenotate per due notti. Cena in un ristorante sugli scogli proprio davanti all’albergo. La mattina seguente visita ad un orefice dove regalava un gioiello (sempre con corallo) alla sua Ciccì, poi cominciavano i suoi giri a Forcella e a piazza Francese dove antiquari e nobili rigattieri lo accoglievano a braccia aperte. Infine il giorno dopo, Molo Beverello e vaporetto per Capri.
Quello per Capri fu vero amore che ritroviamo anche nella pittura (un’altra passione giovanile) che riprese e coltivò nell’ultima parte della sua esistenza. Per gli studiosi e storici contemporanei del settore la figura e l’opera di Pietro Francisci sono state fondamentali per quella stagione del Cinema Italiano.
Dopo una breve malattia muore a Roma il 31.5.1975